Betlemme, una grotta di luce

 

 

 

 

“Siam Giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei……” così inizia la poesia “ la Notte Santa” scritta da Giudo Gozzano nel  1914 che imparai alle scuole elementari.

In effetti sono a Betlemme. La piccola Betlemme sorge a circa 10 km a sud di Gerusalemme su due colline a circa 750 metri di altezza. Il suo nome in ebraico Beit Lehem significa letteralmente “casa del pane”, mentre in arabo Bayt Lahm significa “casa della carne”. Era la città del Re Davide.  Per arrivarci, essendo una città sotto il controllo dell’autorità palestinese, occorre passare il muro che la separa da Gerusalemme. Un controllo sommario dei passaporti effettuato dai militari israeliani e si entra in territorio palestinese, nella Cisgiordania.

Il paesaggio decisamente cambia e si passa da quello che definiremmo “occidentale” con strade ordinate e abitazioni di tipo residenziale ad un paesaggio dove le abitazioni sembrano sgomitare tra loro per farsi spazio in un piccolo territorio messo a loro disposizione: 30 km quadrati con circa 30 mila abitanti. Anche dove transitiamo con il pullman le strade non si possono definire tali; a volte mi sono sempre domandato se gli autisti dei nostri pullman sarebbero capaci di condurre un mezzo di dodici metri su strade dove a mala pena riescono a passare due automobili !

Finalmente dopo alcune “acrobazie” da formula uno del nostro autista, si arriva al parcheggio riservato ai pullman: è una costruzione fatta con grezze pareti e grossolane colonne di cemento armato che a prima vista non mi sembra neppure terminata. E’ costruito sulla costa della collina a strapiombo sulla vallata. Scendiamo dal nostro mezzo e subito una nube di gas di scarico ci prende alla gola. Usciamo e ci troviamo “assediati” dai soliti venditori di rosari ed altri oggetti di culto.

Dopo pochi metri, eccoci nella piazza dove sorge la Basilica della Natività. E’ abbastanza grande ed è caratterizzata dall’imponente costruzione del minareto della Moschea di Omar.  Di lato ad essa, una strada con diversi bazar tipici del medio oriente le cui vetrine sono tappezzate da colorati tessuti.  Da altri negozi di spezie accatastate in sacchi di iuta escono fragranti profumi che impregnano l’aria. Vedo anche degli orafi con le loro vetrine strapiene di oggetti esposti disordinatamente sotto la luce di lampade al neon.

Nella strada e nella piazza vicina è tutto un brulicare di turisti, pellegrini e abitanti di Betlemme. Sono in maggioranza mussulmani e li riconosco perché indossano le tipiche tuniche e  le donne  sono velate.

I bambini giocano sulla piazza e si mescolano ai numerosi venditori, anche giovanissimi, di paccottiglia. Il selciato della piazza è fatto di pietre di un colore biancastro tendente all’ocra ormai rese lisce dal tempo, dall’usura e dal sole.

Ma la basilica della natività dov’è?

In effetti non è molto visibile perché un alto muro la racchiude come una fortezza.Vi si accede chinandosi da una porta molto bassa e il muro di passaggio è spesso quasi 1 metro. Questo chinarsi è un atto penitenziale, per entrare nel luogo della nascita di Gesù.

Appena entrati, ci si trova nella chiesa ortodossa. Dal soffitto scendono numerose lampade e siccome un tempo venivano alimentate ad olio, l’interno della basilica è scuro e tetro. Anche gli affreschi sono scuriti dal tempo. Ma mi avvio verso destra dove una fila interminabile porta alla grotta della natività.

Dopo circa mezz’ora di coda mi trovo a scendere dodici scalini di marmo, parecchio stretti e poco illuminati. Appena entrati subito a destra un piccolo altare ricoperto di drappi, mentre sotto ad esso, per terra la stella in argento: è il punto della nascita, una serie di lampade pendono sopra la stella, mentre di fronte ad essa si trova la mangiatoia. Mi chino per baciare la stella e mi apparto per meditare. C’è un prete ortodosso che mi fa cenno di uscire, ma dato che in quella posizione non blocco la coda dei pellegrini, italianamente faccio finta di nulla e rimango qualche minuto in preghiera.

Oltre duemila anni fa, Egli è nato per noi, è nato per me. E’ nato per portare luce in quella grotta della nostra anima, in quella grotta dove spesso cerchiamo di nascondere le nostre povertà. E Lui povero tra i più poveri, piccolo tra i più piccoli, nella più piccola tra le città della Giudea, in un’esplosione di luce è nato ed ha rischiarato il mondo portando in ciascuno di noi la speranza, l’amore…….la vita.

Sono sceso in questa grotta un po’ buia dove l’Amore si è fatto carne in un bambino e per uscire risalgo da altri gradini alla vita nella luce del Salvatore.

Ormai è tardi e usciamo da Betlemme, con una breve sosta alla “Grotta del Latte”, una grotta tutta bianca dove la leggenda racconta che la Madre di Dio con Giuseppe e il Bambino si soffermò ad allattare Gesù. Una goccia di latte cadde dal suo seno e da quel giorno tutta la caverna ha assunto il colore bianco.

A un paio di chilometri dalla Grotta della Natività una fermata d’obbligo anche al  “Campo dei Pastori”: un  giardino con tante piante e pini dove ci sono alcune grotte che furono usate dai pastori. C’è anche qui una cappella costruita dall’architetto Barluzzi. All’interno, degli affreschi raccontano la natività e l’annuncio ai pastori, mentre dal tetto costruito con tanti fori chiusi da piccole tessere di vetro, lasciano trasparire la luce come fosse un cielo stellato.  Non può non tornarmi in mente la poesia di Gozzano:

“È nato!

È nato il Sovrano Bambino.

La notte, che già fu sì buia,

risplende d’un astro divino.

Orsù, cornamuse, più gaie

suonate; squillate, campane!

Venite, pastori e massaie,

o genti vicine e lontane!”

Cafarnao, le pietre raccontano.

 

 

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Ed eccoci a Cafarnao, la città di Gesù situata sulla sponda israeliana del lago di Tiberiade.

La cittadina, ai tempi di Gesù non aveva neppure un nome, infatti era considerata un semplice villaggio di frontiera il cui nome ebraico Kefar-Nahum significava “villaggio della consolazione”.  Qualcuno lo ha anche identificato come villaggio di grande confusione e non poteva essere altrimenti, visto che si trovava in punto strategico della Via Maris, via di grande comunicazione tra l’Egitto, l’Anatolia e la Mesopotamia.

In questo luogo di frontiera, Gesù scelse i dodici apostoli, insegnò alla sinagoga, compì miracoli e convertì pagani.

Ad accoglierci il convento dei francescani, una tozza costruzione di pietre a fasce bianche e nere posta sulla destra dell’ingresso degli scavi archeologici.

Superati i tornelli, ci troviamo immersi negli scavi archeologici di questa città; gli scavi, molto ben conservati, sono all’interno di un parco con alberi di alto fusto come cipressi, frondosi ficus le cui radici affiorano sul terreno, pini, palme e agave.

Ma ecco, tra le rovine, la casa di Pietro.

Era una tipica abitazione, quasi quadrata con un’unica porta di ingresso il cui stipite conserva ancora le tracce dei battenti che venivano chiusi dall’interno. Era costituita da diversi ambienti e come spesso avveniva, poteva ospitare diverse famiglie; quindi oltre alla famiglia di Pietro e di sua suocera, anche quella di suo fratello Andrea.

Tutte abitazioni della città avevano in comune il cortile il cui pavimento era composto da terra battuta.  Spesso il luogo era ombreggiato da tettoie ricoperte di paglia, e c’era il forno per la cottura del pane. Alla vista del pavimento, non può non tornarmi in mente la parabola in cui Gesù parla della Dramma (moneta) smarrita da una donna, la quale per ritrovarla prende la lucerna e spazza il pavimento attentamente fino a quando non la ritrova. Tutta la giornata o quasi tutta veniva trascorsa in questi cortili.

In mezzo agli scavi, si erge sostenuta da otto possenti e basse colonne di cemento armato, una chiesa moderna, che per come è stata costruita, ricorda una nave spaziale. Una breve rampa di scale porta all’interno della chiesa, ma appena entrati spicca nel mezzo davanti all’altare una recinzione posta tutt’attorno al pavimento di vetro un “oculos”, dal quale è possibile vedere i resti dall’alto.

Sto guardando la casa da quello che era il tetto e subito mi viene in mente il brano evangelico in cui si parla di come il paralitico nel suo “lettuccio” venne calato dal tetto per poterlo portare davanti a Gesù e di come Lui compì il miracolo della sua guarigione.

Anch’io spiritualmente mi sto calando nella casa di Pietro ed anch’io come il paralitico sto chiedendo la grazia della conversione.

A pochi metri dalla casa di Pietro, si erge la Sinagoga o meglio quello che resta della vecchia costruzione.

Vi assicuro che l’emozione nel calpestare il pavimento di quel luogo dove Gesù ha parlato è molto forte.

Dalle poche mura rimaste in piedi riecheggia la voce di Gesù che racconta la parabola del figliol prodigo che torna dal Padre dopo aver sperperato i suoi averi. Ecco anch’io oggi in questo luogo mi sento un po’ come quel figlio che tornando chiede perdono per essermi allontanato dalla sua grazia.

La brezza del vicino lago mitiga il caldo, mentre per la gioia che provo mi prende un nodo alla gola.

Gesù è presente, sento la Sua vicinanza, la sua grazia ed il suo amore paterno mi avvolgono in un abbraccio filiale.

LA CHIESETTA SUL LAGO

 

 

 

Dal titolo, sembrerebbe quasi un romanzo rosa, uno di quei racconti dove si parla di amore e, in effetti, oggi è proprio di amore che vorrei parlarvi. In particolare di un lago, di una chiesetta, dell’Amore e della pace che lì si respirano.

Per arrivarci, si scende dalle colline di Nazareth verso il lago di Tiberiade o mare di Genezareth o mar di Galilea, dove si attraversa un tratto di montagna. A circa metà strada tra le rocce, un cartello indica “meno duecento metri sotto il livello del mare”. È strano, direte voi, come possiamo essere in montagna e allo stesso tempo sotto il livello del mare? È incredibile, ma siamo sul lago di Tiberiade.

Questo lago di acqua salata, (da qui l’appellativo di Mare) occupa una depressione creatasi sulla crosta terreste. Davanti a noi, dalla parte opposta le alture del Golan ed oltre ancora la Siria. Costeggiamo con il pullman lo specchio d’acqua fino a raggiungere un parcheggio non molto grande, e da lì ci inoltriamo in un lussureggiante giardino coltivato con piante ad alto fusto ma, ahimè, la mia scarsa conoscenza in botanica, mi porta a riconoscere solo alcune delle innumerevoli specie che vi sono piantate: l’eucalipto, una magnolia, dei pini.

Sulla destra, dei gazebo al cui interno sono state collocati degli altari realizzati con delle vecchie macine di mulino. Ma ecco in fondo alla discesa il lago e prima ancora sulla sinistra una piccola chiesetta.

La costruzione è in pietra viva.

Si entra e un altare è posto sopra una roccia che spicca dal pavimento. Su questa roccia un cartello con una scritta in latino “Mensa Christi”. In questa chiesetta, detta anche del Primato di Pietro, si ricorda il brano narrato nel Vangelo di Giovanni, in cui Gesù come un fantasma dopo la resurrezione, camminando sulle acque apparve ai discepoli e dove dopo aver mangiato con loro del pesce, cotto sopra una roccia, chiese a Pietro a più riprese: “Pietro mi ami tu?”. E Pietro ha la risposta pronta, quasi stizzita: “Signore tu lo sai che ti amo…”

Non c’è nessun avallo scientifico che il luogo fosse veramente questo, ma certamente lo spirito che aleggia porta a credere e a ripensare alla nostra fede nell’amore di Cristo. Gesù ci parla, ci consola, condivide con noi le gioie e le nostre paure, mangia con noi, rimane in mezzo a noi e anche a noi, anche a me chiede “ma tu mi ami come io amo te?” E a quel punto ti rimane solo una cosa da fare: rispondere in piena e convinta sincerità e chiedere perdono per tutte quelle volte che lo abbiamo tradito, offeso, rinnegato.

Le lacrime iniziano a rigarmi il volto e sento il Suo perdono.

Se qualcuno mi chiedesse quale luogo della Terra Santa mi ha colpito maggiormente, non avrei alcun dubbio: la Chiesa del Primato.

 

 

TABOR: un monte di Luce

 

Percorriamo una  veloce superstrada che ci conduce fuori da Nazareth, in un  panorama mozzafiato tra le colline della Galilea. Giù in basso, la verde pianura è interrotta a tratti dal marrone della terra appena arata. Ben presto però lasciamo la strada principale per Iksaal.  Adesso la vegetazione cambia, lasciando il posto a querce e ulivi e ogni tanto qualche cartellone pubblicitario con scritte in arabo, ci accompagna  fino a  Daburiyya, un paese molto più grande del precedente e costruito in collina. Dei bambini giocano per strada, avranno 5-6 anni e costringono l’autista dell’autopullman ad andare molto piano. Si passa  vicino ad un minareto che con la sua severità sovrasta il paese, per arrivare ad un grande parcheggio dove una fila di autopullman sostano in attesa che tornino i pellegrini dalla visita alla basilica della Trasfigurazione. Siamo alle pendici del Monte Tabor.

In questo parcheggio, attrezzato con un bar, un negozio di souvenir e i servizi igienici, pazientemente ognuno attende  il proprio turno per salire sulla montagna.

La strada è molto stretta e gli unici mezzi per salire sono dei minivan da 9 posti, che fanno continuamente la spola tra il parcheggio e la sommità del monte.

Dopo circa una mezz’ora di attesa è il nostro turno e finalmente si sale in un percorso tortuoso di curve e tornanti. L’autista ci fa scendere dal minivan  vicino ad un  cancello.  E’ aperto e  davanti a noi ecco la basilica. Percorriamo un breve vialetto, con un muricciolo a destra e a sinistra delimitante un  giardino di piante grasse. La chiesa è’ una costruzione imponente di  pietra chiara con due grossi campanili, che terminano entrambi con finestre a bifore. La facciata con tetto a capanna racchiude alla sommità una trifora. Lateralmente appena entrati due cappelle: una  intitolata ad Elia e una  a Mosè . All’interno di esse delle pitture con scene dei Profeti. Difronte a noi una larga scala scende in una cripta luminosa con al centro un altare.

All’esterno, sul piazzale,  si aprono delle grotte allestite con altari per le celebrazioni eucaristiche. A fianco della basilica, una stretta scala di pietra sale su una terrazza da cui è possibile vedere tutta la vallata sottostante. La vista è spettacolare e lontano oltre la grande pianura si intravede il lago di Tiberiade.

Ecco, in questo contesto si è immersi nella luce e nella pace del luogo. Qui in qualche punto di questa collina, Gesù si è trasfigurato davanti ai suoi discepoli e la sua luce e il suo amore  è stato  donato  alla chiesa universale.  Su questa  montagna, nel silenzio a volte interrotto da un alito di vento, viene spontanea una meditazione su noi stessi,  e su chi siamo. Signore, cosa mi chiedi ?  La tua trasfigurazione è forse un richiamo per la nostra poca fede ? Quante volte  mi hai parlato ed io non ti ho ascoltato ? Ecco su questa cima ti sei fatto luce, per illuminare le nostre coscienze e per darci la speranza della futura resurrezione “ chi crede in me non morirà in eterno”

Grazie.

Si scende dal Tabor, immergendoci  nuovamente  nelle cose della vita di tutti i giorni, ma  fortificati e consapevoli  che nelle giornate buie del nostro cammino, la Sua Luce e  il Suo Amore non verranno mai meno.

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